Intervista a cura di Vincenzo Gentile, in “Etica per le professioni”, n. 2/2012.

Ciò che caratterizza la professione di assistente sociale è la dimensione comunitaria dell’intervento professionale: al primo posto la persona, la sua appartenenza a una comunità e le sue prospettive di partecipazione.

Giuseppe De Rita, già Presidente del Censis, resta uno dei riferimenti più autorevoli per la sua lucida e lungimirante capacità di leggere e interpretare i fenomeni sociologici e antropologici che attraversano la nostra contemporaneità. La sua passata interazione con l’importante centro di formazione Cepas, il Centro di Educazione per Assistenti Sociali, prima scuola laica di Servizio Sociale in Italia, ci porta a porgli una serie di doamnde che aiutino a interpretare il tempo che viviamo e a riconoscere il ruolo e la sfida prioritarie che attendono la figura dell’assistente sociale.

Presidente De Rita ho scoperto un “segreto cordone ombelicale” con la nostra professione attraverso il Cepas di Guido Calogero e Angela Zucconi, una delle nascenti scuole di servizio sociale dell’Italia liberata. Cosa significava lavorare al Cepas, cos’era rispetto alle diverse scuole di servizio sociale?
Il Cepas è stata una delle creature dell’arrivo degli Anglo-americani in Italia che hanno avuto subito, nell’immediato Dopoguerra – sono gli anni dal 45’ al 47’ – il problema dell’educazione civica italiana. Per loro il fascismo era stato diseducazione al civismo, diseducazione alla vita collettiva, era stato “parata”, evento ma non era stato certo civismo. Le nuove culture di intervento privato tendevano invece a fare scuola di civismo, di educazione collettiva. Non a caso Angela Zucconi era stata oltre che una delle fondatrici del Cepas anche del Movimento di collaborazione civica, grazie all’aiuto degli americani che, una volta arrivati in Italia, misero a disposizione il loro personale per spiegare e organizzare i corsi di educazione civica. La radice del civismo non si è mai attenuata nel Cepas. La stessa amicizia e collaborazione della Zucconi con Adriano Olivetti, che finanziò la rivista del Cepas, “Centro Sociale”, era un collegamento tra l’origine anglo-americana del civismo e il comunitarismo olivettiano, che era altrettanto civico in sostanza. Era un’attitudine, una tensione che in quell’epoca si respirava molto, si percepiva.

Cosa le resta di quegli anni al Cepas? Su quale progetto lavorava?
Nel gruppo dei primi Cepas c’era ad esempio la moglie di Adriano Ossicini (psichiatra, partigiano e politico di ispirazione cattolico-comunista, ndr). Anche io ho seguito il Movimento di collaborazione civica prima di entrare al Cepas. Quando Angela mi chiamò ero uno dei quadri del Movimento. All’inizio non c’era “professionismo”, poi il Cepas è diventato scuola di professionisti e la stessa crescita degli assistenti sociali, sia quelli che lavoravano in Olivetti che quelli che lavoravano in UNRRA-Casas (organizzazione delle Nazioni Unite per la ricostruzione post-bellica, nello specifico la ricostruzione di case, ndr), si sentivano in qualche modo operatori di civismo più che operatori del sociale. Nella cultura Cepas quindi c’era in particolare questa dimensione del civismo ed era in qualche modo in contrapposizione con De Menasce e l’Ensiss perché l’Ensiss diventò subito una cultura professionale. La divisione allora era molto semplice o forse semplicistica, l’Ensiss faceva case study cioè lavoro professionale sui singoli mentre il Cepas faceva group work, lavoro comunitario e ci insegnavano ad andare in comunità. Ricordo Cecrope Barilli che per noi è stato un punto di riferimento, un grande formatore ma che con la professione non aveva nulla a che vedere, ti insegnava a suonare il flauto dolce, a fare gli aquiloni, a danzare in gruppo, aveva il senso di una formazione nella dimensione artistica, culturale del civismo.

Secondo Paola Rossi: “Ciò che caratterizza la professione di assistente sociale è la dimensione costantemente comunitaria dell’intervento professionale: non viene infatti considerato l’individuo, ma la persona e quindi la sua appartenenza ad una comunità e le sue prospettive di partecipazione e sviluppo. Il lavoro di comunità costituisce ora una proposta utile per il Welfare state dei prossimi anni, non unicamente all’insegna del risparmio e della razionalizzazione delle risorse, ma di uno sviluppo sociale che abbia riguardo alla persona e al cittadino”. Cosa si intende per lavoro di comunità, può essere sinonimo di sviluppo locale? Quali gli strumenti a disposizione del ricercatore per capire le diverse dinamiche sociali?
Il lavoro di comunità non è stato subito sviluppo locale, era sviluppo civico. Delle mie due esperienze, una come Movimento di collaborazione civica e una come Cepas, la prima era a Donna Olimpia, un quartiere allora molto periferico di Roma, a Monte verde, al confine con via dei Colli portuensi. Il Movimento di collaborazione civica attuava un intervento comunitario, si faceva un lavoro di comunità in cui di fatto si faceva educazione per gli adulti con le cose più varie. A Donna Olimpia ho cercato di lavorare con l’intento di creare un’identità collettiva per adulti che allora vivevano dispersi in una estrema periferia romana. L’altra esperienza fu con l’ UNRRA-Casas a Frascati dove andammo come tirocinanti Cepas. Fu più o meno la stessa cosa, c’era un problema di formazione al vivere insieme. Non si trattava di sviluppo locale, è arrivato dopo. A proposito degli strumenti, noi avevamo fatto tesoro della lezione di Lebret, il domenicano francese che aveva creato “Economie et humanisme”. Lebret aveva un’idea di ricerca-azione secondo cui la comunità doveva fare auto-conoscenza, auto-coscienza e auto-dominio. Doveva interrogare se stessa attraverso questo triplice passaggio, per capirsi, per avere coscienza complessiva di sé e per auto-dominarsi, auto-proporsi verso il futuro. Nel contesto culturale internazionale questa visione è stata molto importante tanto da essere avversata dalla cultura tedesca che concepiva la ricerca-azione in maniera totalmente diversa. La ricerca –azione di Lebret permette di costruire la comunità e la comunità si costruisce conoscendosi, si costruisce con un affinamento coscienziale e poi si fa un auto-propulsione, ci si chiede dove andiamo e come andiamo. Questo è stato secondo me lo strumento principale che in qualche modo, anche confusamente, entra a fine anni ’50 nello sviluppo locale. Con Scassellati utilizzammo poi questa impostazione nel programma ASEM (programma di attività sociali ed educative per il Mezzogiorno, ndr) cioè nell’impegno del Ministero per il Mezzogiorno, come autocoscienza mettendo su la biblioteca, il centro di educazione per gli adulti e altro. E anche nell’Amministrazione Aiuti Internazionali, che a quell’epoca era diretta da Morino uno dei fondatori del Movimento di collaborazione civica. Ecco c’era tutto un mondo che non si conosce e che bisognerebbe ricostruire. Un modo che non è solo Angela, Olivetti e De Menasce ma Ebe Flamini, Cecrope Barilli.

E’ ancora attuale la lezione di Sebregondi ovvero concepire il lavoro intellettuale come lavoro “tecnico-politico” volto alla trasformazione complessiva della società? L’assistente sociale è riconosciuto come un agente di cambiamento. Come può, attraverso il suo costante impegno, capire le direzioni di marcia su cui si muove la società nel lungo periodo? Ha ancora senso parlare di lungo periodo?
Assolutamente sì, la lezione di Sebregondi è ancora attuale ma se la assimiliamo alla politica italiana allora è no. Certamente ha ancora senso parlare di lungo periodo, almeno per me, che sono un “braudeliano” (vedi Fernand Braudel e la sua analisi del commercio, ndr) convinto. Per capire il lungo periodo bisogna stare dentro la quotidianità, bisogna studiare e capire i comportamenti mentre invece dall’altra parte si studiano o si è prigionieri degli eventi. Fra eventi e comportamenti la cultura moderna preferisce gli eventi perché a livello mediatico fa più impressione. Restare sui comportamenti significa capire, star dentro il lungo periodo.

In un suo saggio ha affermato che “la piena comprensione della società non sta nelle grandi medie della normalità ma nella capacità di capire le vibrazioni, intese come comportamenti appunto, della periferia anche quando sono devianti”. Cosa pensa allora dell’assistente sociale riconosciuto anche come ricercatore sociale “privilegiato”?
Naturalmente l’assistente sociale è un ricercatore sociale privilegiato però deve fare il ricercatore. Molto spesso non lo fa.

Con riferimento alle molte battaglie portate avanti dagli assistenti sociali in merito al riconoscimento professionale e all’albo lei ha affermato che gli assistenti sociali erano più titolati dei sociologi ad averne uno. Perché?
Guardando la storia, i sociologi sono accademizzati riducendosi, oggi, quasi a nulla. Se pensiamo che a Roma ci sono 105 professori di sociologia di prima e seconda fascia mi chiedo che facciano, dove stiano, cosa abbiano scritto. I sociologi hanno perso la loro funzione sociale, gli assistenti sociali, specialmente i primi, quelli legati alla dimensione sociale, alla comunità, avevano una professionalità più ricca, che forse oggi hanno un po’ perso, ma restano dei professionisti e l’albo è un albo della professione. Il sociologo non è più un professionista è un accademico.

Con riferimento agli indirizzi europei in materia di liberalizzazione delle professioni, cosa pensa del ruolo e della funzione degli ordini professionali oggi? Quale direzione dovrebbero prendere?
Le professioni, a mio avviso, hanno bisogno più che dell’albo in quanto tale, di una regolamentazione. Gli ordini nascono perché lo Stato si prendeva carico di controllare che una determinata professione non creasse problemi ai cittadini. Ciò significa assicurare che un ingegnere sapesse costruire un ponte dove la gente potesse passare senza che questi crollasse, che un avvocato oltre a prendere soldi sapesse anche di diritto e che un medico non rompesse le ossa senza essere nemmeno laureato. L’albo professionale nasce come garanzia pubblica dell’interesse privato ad essere cliente del professionista. E’ chiaro che con l’abolizione dell’ordine prevarrebbe solo il mercato. Non ci sarebbe più l’interesse pubblico a garantire il bisogno sociale, il rischio sociale, sorgerebbe il problema della totale vittoria del mercato. Se al posto del commercialista prendo il tributarista perché mi costa di meno così come al posto dell’avvocato prendo il consulente del lavoro che mi offre servizi simili diventa tutto mercato. Ed è difficile dire ci vorrebbero tanti albi quante sono le professioni, salterebbe l’idea stessa dell’albo. L’albo continua a servire come dichiarazione deontologica di un gruppo di professionisti che si riconoscono in una determinato gruppo, che condividono gli stessi valori. Penso agli psicoanalisti, ognuno con una scuola diversa, i freudiani doc ad esempio si riconoscono in quella scuola di pensiero. Di loro si conosce il percorso di studio, chi li ha seguiti, con chi hanno passato l’esame, con chi hanno fatto i 5 anni di terapia. Dovremmo tornare a quella logica in cui le professioni garantiscono se stesse senza un bollo dello Stato.

Cosa si sente di suggerire ad un assistente sociale neolaureato?
Forse neanche ai miei otto figli mi sento più di suggerire qualcosa (ride, ndr). Secondo me, ma è un mio pallino, sicuramente stare poco in ufficio e molto in comunità. Oggi c’è la tendenza a fare l’assistente sociale d’ufficio dentro un ministero, un ente che si occupa dei problemi sociali per modo di dire. La burocrazia può uccidere l’assistente sociale. Allora bisogna andare nei comuni, fare lavoro nelle periferie, è ancora possibile.